Gemellaggio del Premio Exodus con il Festival Oy Oy Oy

Ondine

13 Ottobre 2010

Riportiamo il testo che Antonio Monaco Editore, Presidente di Monferrato Cult, scrisse per presentare la prima edizione di Oy oy oy- Festival internazionale di cultura ebraica . Queste riflessioni ci possono aiutare ancora oggi, per cercare di comprendere l'importanza per un territorio di investire in eventi culturali duraturi e di approfondimento. Queste parole degli amici di Oy oy oy, sono stimolo valido per aprire questa effettiva collaborazione fra Premio Exodus e tale manifestazione, gemellaggio che da quest'anno prende avvio. 

 

UN PONTE (GHESCER) CULTURALE DAL MONFERRATO

Fin dai tempi di Abramo, di Mosè e di Daniele, la vita ebraica è sempre stata segnata dalla lontananza. Da duemila anni in qua, fino alla fondazione dello Stato di Israele, la cultura ebraica è stata elaborata per lo più lontano dalla sua terra originaria: in Mesopotamia e in Spagna, in Francia e in Egitto, in Polonia e anche molto in Italia, sede con Roma delle più antica comunità ebraica occidentale, ininterrottamente attiva da più di due millenni.

Questa condizione di lontananza è testimoniata perfino nel nome: ivrì, ebreo, è secondo l'etimologia più diffusa, è colui che passa, che attraversa – fiumi, frontiere, difficoltà, persecuzioni, generazioni. Essa ha due aspetti. Da un lato è esilio, galut, lontananza dolorosa e luttuosa, dipendenza da potenze ostili, pericolo, impossibilità di vera autonomia. Dall'altra è incontro, scambio, missione. Israele non ha velleità di convertire gli altri popoli, ma fin dai tempi biblici si sente investito di una missione sacerdotale e sa di dover lavorare per la diffusione universale del monoteismo: un giorno, si recita nelle preghiere quotidiane, tutti riconosceranno l'unità di D-o e perfino il suo nome sarà uno. 

La disseminazione (diaspora) dell'ebraismo nel mondo da questo punto di vista è un fatto positivo, è, letteralmente, semina. Riconoscere i giusti nelle nazioni che incontra è una delle missioni che Israele ha sempre compiuto volentieri, dall'Avimelech biblico a Carlo Alberto – onorato ancora oggi in tutte le sinagoghe del Piemonte per aver decretato l'emancipazione – sino ai Giusti delle Nazioni che hanno sottratto delle vittime al nazismo e sono celebrati in Israele.

Anche la cultura ebraica ha avuto nei secoli lo stesso doppio aspetto. Da un lato è stata una costruzione interna straordinariamente ricca e complessa, con i suoi maestri e le sue scuole, le sue fasi e le sue discussioni. Solo pochi nomi di questa grande elaborazione culturale sono arrivati alla notorietà nel mondo occidentale, per esempio Maimonide o i chassidim dell'Europa orientale. Ma per quantità e qualità la cultura ebraica interna ha dimensioni e complessità pari a quella della grande tradizione europea, ricca com'è di riflessione teorica e di poesia, di legislazione e di costumi quotidiani. 
Tale cultura interna, ma non necessariamente segreta o esoterica, solo appartenente a un certo popolo ed espressa nella sua lingua, è forse il solo esempio al mondo di una civiltà senza territorio, custodita nei cuori e nei gesti, non da confini ed eserciti.

Accanto a essa vi è una cultura esterna, frutto degli incontri e degli scambi, attiva in parte da sempre: si pensi al ruolo delle traduzioni ebraiche dall'arabo nelle lingue occidentali durante il medioevo, o alla medicina ebraica. Essa però è esplosa in Occidente a partire dalla modernità, di cui è una componente essenziale. Sarebbe impossibile concepire il mondo occidentale contemporaneo senza Freud e Marx, Kafka e Wittegenstein, Mahler e Proust, solo per fare alcuni nomi a caso.

È importante comprendere che la cultura esterna non ha in alcun modo sostituito o ibridato quella interna. Essa è il frutto di un incontro, di uno scambio, che non è stato certamente innocuo o indolore, ma è stato un terreno di scambio, di incontro, un ponte fra le culture. Come i numerosi linguaggi misti che le comunità ebraiche hanno elaborato nei loro diversi soggiorni, dal più celebre, l'yiddish ebraico tedesco, fino al giudaico-piemontese e al dialetto della comunità di Roma. 

Vi sono stati luoghi in cui l'incontro fra ebraismo e nazioni ospitanti è stato particolarmente difficile e doloroso, fino all'orrore della Shoah. E vi sono stati luoghi in cui il rapporto è stato generalmente più facile e costruttivo, intessendo rapporti e collaborazioni per secoli.

Il Monferrato è stato una di queste zone di scambio e di ospitalità, fin dai tempi dei Paleologi e dei Gonzaga. Le sinagoghe sparse per città e cittadine ne sono uno splendido ricordo. Ma ancora questa collaborazione vive e il dialogo dà frutti. Celebrare questo rapporto con un festival vuol dire non solo far vedere la diaspora ebraica nella sua dimensione di apertura, ma anche mettere in mostra e valorizzare la vocazione all'ospitalità di queste terre.


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